D?nilo Mainardi, del Dipartimento di Scienze Ambientali dell'Universit? di Venezia
Affrontare il tema della consapevolezza degli animali, sia di sè che, anche, di cosa sta accadendo intorno al "sè" non è facile. Tra i competenti, infatti, c'è disparità di opinioni. Disquisire di ciò sarebbe certo molto più semplice per ogni proprietario di cane o di gatto: quelli (quorom ego) nutrono ben pochi dubbi al riguardo, ma vagli a credere. C'è comunque, un comportamento canino che ben si presta per ragionarci sopra, ed è quando due individui si valutano in vista di un eventuale combattimento.
Luis Sepùlveda, che oltre che letterato è anche un esperto osservatore dei fenomeni naturali, per raccontare ( nel libro Patagonia Express) un suo incontro con Bruce Chatwin, combinato dai rispettivi editori, fa riferimento, per analogia, proprio a questo comportamento canino. Così: "Con un gesto indicò la sedia. Mi accomodai, accesi una sigaretta, e restammo ad osservarci a vicenda senza dire una parola, con un atteggiamento canino, si, molto canino e saggio. Che fanno due cani quando si incontrano per la prima volta? Non latrano, non uggiolano, non dicono nulla, si limitano ad annusarsi il posteriore, a volte fermi, altre girando. Non fanno che questo, annusarsi il posteriore senza pensare a contratti o a condizione. Alla fine di quel rituale così semplice decidono se si attaccheranno, se ciascuno continuerà per la sua strada dimenticando l'altro o se, insieme, imboccheranno un sentiero che li porterà fino all'inferno. Bruce ed io facemmo esattamente la stessa cosa davanti a un tavolo del Cafè Zurich, a Barcellona. Lui sapeva che io sapevo dei due gringo, ed io sapevo che lui sapeva dei due gringo....." I due gringo, per la cronaca, erano Butch Cassidy e Billy the Kid, e gli editori speravano che Chatwin e Sepùlveda iniziassero insieme una ricerca e un libro. Ma questa, come si dice, è un'altra storia. La nostra, invece, riguarda il comportamento dei cani. Come altri animali, anche i cani mostrano un comportamento di valutazione dell'avversario che prelude la scelta della strategia da seguire. I cani fanno quello che ci ha raccontato Sepùlveda, e che del resto noi tutti conosciamo; i cervi e i daini compiono una sorta di passeggiata appaiati; le pecore di montagna nordamericane decidono se combattere o fuggire valutandosi reciprocamente le dimensioni delle corna. Se un individuo è in grado di fare una sorta di ragionamento del tipo: quello ha le corna più grosse delle mie, è meglio che me la fili, e a ciò arriva tramite esperienza, sembrerebbe abbastanza logico attribuirgli capacità di autocoscienza e di consapevolezza. Tanto più che, in certe specie, con incontri truccati, è stato perfino possibile far sviluppare sperimentalmente individui che si sopravvalutano, oppure, viceversa, che si sottovalutano. Eppure la situazione non è così semplice; il verdetto sulla presenza o meno di un'autocoscienza non è così automatico, anche se ormai molti e diversificati sono i casi che fanno propendere per un verdetto positivo. Penso agli animali che mentono perchè hanno appreso che, con certi loro comportamenti, possono manipolare il comportamento altrui. Tipico è il caso di quei corvidi che emettono segnali di allarme non, altruisticamente, per convincere i compagni ad allontanarsi per la presenza di un predatore bensì, egoisticamente, per non condividere un pasto. E di casi così ce ne sono altri. Singolare è quello di quei macachi giapponesi che recentemente hanno inventato l'uso di togliere parassiti cutanei a piccoli cervi per nasconderseli tra il pelo e poi avvicinarsi ad un cospecifico per ottenere da lui una (ambitissima) spulciata. Una sorta, anche questo, di benevolo inganno. Il macaco che ne è attore, se si applica addosso un parassita tolto da un individuo assai diverso da sè ( il cervo), per poi ingannarne un altro, questa volta assai simile a sè ( il cospecifico), dovrebbe pur avere sia l'autocoscienza che la consapevolezza in genere di quanto gli succede intorno. E poi c'è il caso delle leonesse. Tra i leoni è soprattutto il sesso femminile impegnato nella predazione, e socialmente. Le leonesse infatti predano insieme, in modo coordinato. Esistono però le eccezioni: femmine che, solitarie, sono in grado di uccidere uno gnu, una zebra. Il problema, per loro, viene dopo, perchè si trovano circondate da sciacalli, iene, avvoltoi, e ben difficile è, in solitudine, difendere la carcassa da tutti quegli "spazzini". Così è istruttivo osservare queste leonesse, subito apparentemente consapevoli del loro problema. Si guardano intorno, alzano gli occhi al cielo all'apparire dei primi avvoltoi, tentano di trasportare la preda in modo da celarla. Ognuna ha le sue strategie, per buona parte inefficaci. Ma è proprio il fatto dell'individualita dei comportamenti, il fatto che non siano "scritti dentro", oltre alla qualità degli stessi, che forte dà l'idea che questi animali siano consapevoli non solo di quanto sta succedendo, ma di quanto, purtroppo, succederà. Di fatti così ce ne sono parecchi, e alcuni fortemente convincenti per chi ha la ventura di osservarli. Più difficile, forse, è scriverne. Ma è giunto il momento di parlare della "prova dello specchio". C'è una discriminante nel regno animale: esistono specie (pochissime) che, poste di fronte ad uno specchio, arrivano a comprendere che l'essere riflesso rappresenta la propria immagine, e specie che o scambiano quell'immagine per un altro individuo oppure, addirittura, se ne disinteressano. Ebbene, per certi scienziati solo le specie della prima categoria dimostrano di avere autocoscienza. E queste appartengono ai primati superiori: scimpanzè, gorilla ed orango. Non ho idea di come si comportino i gibboni; quanto alle altre scimmie, per non parlare degli altri animali, sono incapaci di riconoscersi allo specchio. Ora, il problema si pone così: è indubbio che il riuscire, come fanno le scimmie superiori, a riconoscere la propria immagine in uno specchio rappresenti una prova consistente che esse hanno consapevolezza di sè. La prova dello specchio, in altre parole, è una valida prova "in positivo". Ma la è altrettanto "in negativo"? E' cioè corretto dedurre che le specie che non possiedono la capacità, le strutture mentali, per comprendere che quell'essere al di là dello specchio ? " il sè medesimo", non hanno coscienza di sè? Non c'è una gran logica, a ben pensarci, in questa deduzione. La questione, pertanto, rimane fumosa. Ho la sensazione che sia così perchè con la consapevolezza vale la regola per cui "natura non facit saltus". Riconsideriamo, al proposito, il caso iniziale, quello dei cani che si valutano. Un buon caso, apparentemente. Il fatto è, però, che anche animali assai meno evoluti dei mammiferi, certi pesci per esempio, sono in grado di fare questa valutazione, pure loro in funzione dell'esperienza. Cosa dovremmo concludere allora? Che i pesci hanno coscienza di sè? Difficile crederlo. Qualcosa di estremamente vago, di davvero "iniziale", una traccia minima, deve comunque esistere perfino in quegli essere primitivi.