Un?occasione come questa ? per me preziosa perch? mi permette di presentare, di fronte a un pubblico cos? numeroso e interessato di non addetti al lavoro, quella che ? stata la complessa elaborazione del telaio concettuale entro il quale si colloca la medicina riabilitativa. La riabilitazione medica, che trova la sua origine nella fisioterapia, una disciplina prevalentemente empirica che si serviva di mezzi la cui efficacia non era - e non ? tuttora - sufficientemente documentata, ha trovato una sua dignit? quando sono stati messi a punto i concetti di disabilit? e di handicap.
Il modello medico imperante nella prima met? del secolo contemplava una causa (eziologica) che attraverso meccanismi diversi (patologia) determinava dei segni e dei sintomi, che corrispondevano a danni di organi e funzioni. Il medico al letto del paziente seguiva il percorso inverso: dall?analisi dei segni risaliva alla patologia, di qui alla eziologia. Era la diagnosi, che implicava anche il conseguente trattamento. Il paziente poteva guarire o non guarire, ma il medico aveva tutto sommato esaurito il suo compito.
Negli ultimi decenni le malattie acute si sono considerevolmente ridotte di numero, grazie a efficaci misure preventive, come le vaccinazioni e la diffusione delle misure igieniche. In compenso sono aumentati in proporzione geometrica gli eventi morbosi acuti che lasciano degli esiti e le malattie croniche, spesso progressive, le cui conseguenze possono incidere in modo anche pesante sulle condizioni di vita del paziente.
Le cause di questa mutazione sono numerose. La pi? importante probabilmente ? l?aumento della durata media della vita, che lascia pi? tempo agli agenti patogeni per agire. Ma determinanti sono anche altri fattori, come la sopravvivenza di molte persone un tempo destinate a morire in breve tempo: mi riferisco ai traumi cranioencefalici o ai bambini che nascono prematuramente. In pi?, sono molto aumentati i traumi gravi per il traffico, lavoro, sport. La medicina non poteva non farsi carico di queste persone, che oggi rappresentano sicuramente la maggioranza dei casi che si presentano all?attenzione delle strutture sanitarie.
Per rendere pi? chiare le conseguenze che questo punto di vista determina sul ?che fare?, ? stato gradualmente elaborato uno schema che segue l?iter da un evento morboso acuto o cronico, congenito o acquisito, allo svantaggio esistenziale che pu? segnare l?intera vita del paziente.
Negli anni 80, un gruppo di lavoro dell?Organizzazione Mondiale della Sanit? ha curato l?edizione di un piccolo libro sulla classificazione internazionale delle menomazioni, disabilit? e handicap (ICIDH International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps ), che racchiudeva gran parte delle idee che eravamo andati elaborando in quegli anni in tutto il mondo. La classificazione prendeva atto del fatto che un evento morboso, congenito o acquisito, acuto o cronico pu? determinare dei danni, delle menomazioni a carico di organi o di apparati, che possono anche non essere percepiti ma sono comunque percepibili (gli ?impairments?). Il danno, che ? appunto una alterazione a carico di organi ed apparati, strutturale o funzionale, a sua volta genera delle disabilit?, delle perdite di capacit?, che sono a carico della persona nel suo insieme. Mentre la paralisi ? un danno, il non poter camminare ? una disabilit?, che in genere viene espressa, appunto, con un verbo al negativo. La disabilit? di per s? non ? un handicap: lo diventa soltanto quando incontra degli ostacoli, delle barriere che impediscono alla persona di manifestare tutte le sue potenzialit?. Per esempio, l?evento morboso potrebbe essere la vasculopatia cerebrale, la lesione l?infarto cerebrale, il danno la paralisi. Il non poter camminare, che ne ? la conseguenza, ? la disabilit?. Questa diventa un handicap quando non permette di incontrare gli amici al caff?, se le porte dell?ascensore sono troppo strette o il marciapiede ? troppo alto per la carrozzina del disabile.
Ci sono gravissimi disabili che non sono affatto handicappati, in quanto sono in grado di fare delle scelte a proposito del tipo di vita che intendono svolgere. A volte la disabilit?, anzich? uno svantaggio, pu? essere addirittura fonte di vantaggi per il disabile. Accanto a quelli che sono definiti benefici secondari, di tipo affettivo, psicologico, raramente purtroppo economico, ci sono vantaggi legati strettamente al tipo di disabilit?. Basti pensare alle capacit? dimostrate dai ciechi in attivit? come il massaggiatore o il centralinista. E? provato che in certe situazioni il disabile pu? mostrarsi addirittura pi? abile del cosiddetto normale, in un ambiente che improvvisamente piomba nel buio l?unico non handicappato ? il cieco eventualmente presente. Sono le difficolt? ambientali a trasformare la disabilit? in handicap, nell?incapacit? di svolgere una parte pi? o meno importante del ruolo sociale che la comunit? attende da tutti i suoi componenti. Gli strumenti pi? importanti per svolgere questo ruolo sono stati identificati dall?OMS nell?indipendenza fisica, nella mobilit?, nell?occupazione, nell?integrazione sociale, comprese le attivit? sportive e di tempo libero e nell?autosufficienza economica.
Il termine handicappato non va quindi usato come un sostantivo e neanche come un aggettivo, ma piuttosto come un participio passato, il soggetto disabile viene handicappato da qualcosa che ? nell?ambiente, e che ? quasi sempre il frutto dell?organizzazione sociale. Le barriere architettoniche ad esempio non esistono in natura, ma nascono dalla progettazione dei tecnici che debbono costruire gli edifici e le strade.
Ma le barriere architettoniche non sono le sole, e forse non sono neanche le pi? importanti. Ricordo le difficolt? che incontravamo qualche decennio fa ad introdurre dei bambini disabili nelle scuole, perch? non li volevano i genitori degli altri bambini, i ?normali?, perch? si supponeva portassero malattie o perch? erano testimonianza di chiss? quali colpe dei genitori. Non li volevano gli insegnanti che non gradivano che le loro capacit? didattiche venissero messe alla prova in condizioni diverse dalla routine quotidiana. Senza alcun dubbio ancor pi? importanti sono le difficolt? economiche, fattore presente pressoch? in tutte le condizioni di handicap. Per cui la riabilitazione, nel suo senso compiuto, comprende la lotta per la prevenzione e l?eliminazione delle barriere come elemento determinante per la soppressione dell?handicap.
Mi sono reso conto della verit? di queste affermazioni durante le mie visite nell?Africa Orientale, dove vivono ancora centinaia di migliaia di bambini poliomielitici, la cui riabilitazione ? possibile soltanto se si integrano attivit? e competenze diverse, l?ospitalit? delle missioni, l?opera dei sanitari, in particolare dei chirurghi, dei fisiatri e dei terapisti, l?educazione scolastica, garantita dai governi, e soprattutto la partecipazione convinta della comunit?. Mi sono reso conto di quanto avesse ragione don Carlo Gnocchi, che della riabilitazione di oggi aveva anticipato quasi tutto, quando diceva che i bambini poliomielitici dovevano essere presi in carico ?da uno a diciotto anni?, fino a quando cio? non avessero in tasca non soltanto un mestiere, ma un posto di lavoro.