giovedì 13 gennaio 2000 Allarme
asteroidi |
ALLARME ASTEROIDI
Tra l'orbita di Marte
e quella di Giove esiste una moltitudine di piccoli corpi planetari
che, nel loro insieme, formano la ben conosciuta " Cintura
degli asteroidi". Le dimensioni di questi oggetti coprono
un intervallo molto vasto: dalla polvere più minuta fino
ai circa 1000 km del più grande fra essi, Cerere, scoperto
nel 1801 dall'astronomo italiano Piazzi. La loro origine è
stato un grosso interrogativo, irrisolto fino a non molti anni
fa. L'idea più seguita, per molto tempo, si rifaceva all'esplosione
o, quanto meno, alla frammentazione di un corpo planetario di
grandi dimensioni. Studi più dettagliati hanno però
mostrato come questa ipotesi suggestiva e catastrofica non poteva
inserirsi in modo accettabile nella visione generale del Sistema
Solare che si stava delineando, sempre più accuratamente,
attraverso i moderni studi teorici e le informazioni che ci provenivano
dalle sonde spaziali. L'origine della Cintura asteroidale va invece
cercata in un processo di formazione planetaria interrotto ben
prima che potesse giungere a compimento. Al pari di tutti gli
altri pianeti del Sistema Solare, anche tra Marte e Giove, si
stava formando, circa 4,5 miliardi di anni fa, un corpo celeste
delle dimensioni paragonabili forse a quelle della nostra Terra.
Il meccanismo fondamentale per questa "costruzione"
era quello dell'accrescimento continuo, attraverso urti a bassa
velocità, delle particelle microscopiche che, fin dagli
albori, costituivano, insieme al gas, il disco protoplanetario
che circondava la stella Sole. Tale accrescimento portò
in un periodo relativamente breve, dell'ordine del milione di
anni, alla formazione di pseudo-pianeti (in gergo "planetesimi"),
con dimensioni molto variabili, ma già ben superiori alle
decine o addirittura alle centinaia di chilometri. Il processo
risultava però molto più rapido nella zona "gioviana"
che non in quella più interna. Ciò per motivi legati
soprattutto alle temperature più basse ed alla maggiore
materia a disposizione. Cosicché, mentre nella cintura
asteroidale si era ancora in una fase ``preparatoria'', con molti
planetesimi relativamente piccoli, nella zona immediatamente più
esterna orbitavano corpi molto più grandi e numerosi, in
grado di disturbare seriamente l'accrescimento del pianeta "asteroidale".
Nel giro di pochi milioni di anni, le perturbazioni introdotte
dai planetesimi gioviani sconvolsero gli equilibri, aumentando
le eccentricità e le inclinazioni delle orbite dei planetesimi
asteroidali. In poche parole, costrinsero questi ultimi ad impattare
tra loro a velocità troppo alte per accrescersi in un solo
pianeta. I più grandi sopravvissero (ma si contano forse
su una sola mano), gli altri si distrussero l'un con l'altro producendo
una serie quasi infinita di "frammenti", i progenitori
della attuale cintura asteroidale.
Questo regime di collisioni mutue continua tuttora, coinvolgendo
"proiettili" e "bersagli" di dimensioni gigantesche
per il nostro metro terrestre. All'interno della cintura principale,
esistono però zone estremamente instabili, collegate a
particolari configurazioni geometriche ripetitive rispetto a Giove.
Un asteroide che si trovasse all'interno di una di queste zone
(le cosiddette risonanze) avrebbe un destino segnato: la sua orbita
si allungherebbe e sarebbe costretta a penetrare all'interno dei
pianeti terrestri, da Marte fino a Mercurio. Il regime collisionale
sopra descritto è in grado di produrre costantemente frammenti,
grandi anche alcuni chilometri, parte dei quali viene immessa
all'interno delle risonanze. Si produce, cioè, un flusso
continuo di nuovi oggetti che in periodi relativamente brevi diventano
abitatori della fascia planetaria più interna. Questi ultimi
non possono sopravvivere a lungo. L'evoluzione delle loro orbite
è essenzialmente caotica, ossia del tutto imprevedibile,
e, proprio per questo, subiscono perturbazioni violente, spesso
dovute a passaggi avvicinati con i pianeti di tipo terrestre.
La loro vita è di breve durata: la maggior parte finisce
sul Sole, altri vengono "scacciati" dal Sistema Solare,
ma altri ancora terminano i loro giorni impattando con un pianeta.
Sono proprio questi ultimi i membri della popolazione che tanto
timore sta suscitando, i cosiddetti "Earth Crossing Asteroids",
oggetti teoricamente in grado di collidere con la Terra. Essi
esistono sicuramente e continuano a rifornirsi attraverso il meccanismo
collisione - risonanza. La superficie terrestre porta ancora i
segni di impatti catastrofici avvenuti nelle ultime centinaia
di milioni di anni e sopravvissuti all'azione erosiva dell'atmosfera.
Sono noti circa 150 crateri da impatto, alcuni di dimensioni addirittura
superiori ai cento chilometri, causati da corpi planetari grandi
fino a qualche chilometro. Il più famoso tra questi è
sicuramente il Chicxulub, scoperto pochi anni fa tra la penisola
dello Yucatan e il golfo del Messico. Con un diametro di circa
180 km, esso è stato datato molto accuratamente e risale
esattamente a 65 milioni di anni fa. Proprio il periodo geologico
di transizione tra Cretaceo} e Terziario, a cui si fa risalire
la scomparsa dei dinosauri. Il collegamento impatto-estinzione,
anche se non ancora accettato da tutti, è estremamente
stimolante, soprattutto perché nella storia biologica terrestre,
una serie di altre estinzioni quasi globali sono state associate
ad impatti cosmici. Non bisogna poi dimenticare il contributo
che anche le comete possono dare a questo scenario di pericolo
latente. Esse, infatti, non sono solo la causa prima delle bellissime
piogge di stelle cadenti, ma possono condividere con gli asteroidi
il poco piacevole ruolo di "proiettile". Recentemente,
al pari della scala Mercalli per i terremoti, è stata resa
ufficiale una scala per la valutazione del rischio di impatto
di un corpo celeste con la Terra. Essa ha preso il nome di "
Scala Torino", in quanto coniata durante un importantissimo
congresso tenutosi proprio a Torino nello scorso mese di giugno.
Vincenzo Zappalà
Osservatorio Astronomico di Torino
TUNGUSKA: IDENTIKIT DI
UNA CATASTROFE COSMICA
Il 30 giugno 1908 poco dopo le 7 del mattino, ora locale, in Evenkia
(Siberia Centrale) nelle grandi foreste della taigà a Sud
del Circolo Polare Artico apparve improvvisamente nel cielo una
colonna fiammeggiante proveniente da sud-est: "una palla
di fuoco brillante come il Sole" discese silenziosamente
finché, a circa 8 km di quota, si verificò un'immane
esplosione, mentre una densa nube di fumo si sollevava dalla regione
interessata dall'evento. La palla di fuoco fu vista entro un raggio
di 1.500 km di distanza, un'onda sismica fu registrata attraverso
l'Eurasia, mentre l'onda di pressione atmosferica effettuò
il giro del pianeta, infine un insolito bagliore notturno fu visibile
nei giorni successivi e per circa due mesi dall'Europa alla Siberia,
alla California. La foresta venne rasa al suolo per oltre 2.000
chilometri quadrati, con 60 milioni di alberi privati dei rami
e sparsi per terra allineati tra loro, ad indicare la direzione
dell'onda d'urto. L'energia dell'esplosione è stata stimata
intorno ai 10-50 Megaton, oltre mille volte la bomba di Hiroshima.
Sembra che le vittime siano state due, ma nonostante ciò
si trattò di pura fortuna in quanto la regione era quasi
disabitata: l'intera Evenkia, vasta più di due volte e
mezzo l'Italia, contava nel 1995 solo 21.000 abitanti (e molti
di meno nel 1908). Il luogo dell'esplosione era così difficile
da raggiungere che venne esplorato per la prima volta da una spedizione
organizzata dallo scienziato russo Leonid Kulik solo nel 1927
con lo scopo di cercare di capire cosa fosse successo quel giorno
di 19 anni prima. Tutte le testimonianze raccolte nei decenni
successivi indicarono che la causa dell'esplosione era stata la
caduta di un corpo celeste, con un diametro fra i 50 e i 100 metri
e dotato di una velocità di alcune decine di chilometri
al secondo. Ma c'erano delle evidenti stranezze. Come mai sul
terreno non si trovava un grosso cratere, simile al Meteor Crater
dell'Arizona, formato circa 50.000 anni fa da un corpo celeste
di dimensioni analoghe, e come mai non fu possibile rintracciare
pezzi macroscopici di questo oggetto, come meteoriti, nonostante
le molte accurate ricerche? Negli anni Cinquanta, queste strani
aspetti dell'evento indussero alcuni ricercatori a proporre ipotesi
più o meno fantascientifiche: si era forse trattato di
un'esplosione nucleare, magari causata da un'astronave aliena
caduta sulla Terra? Per quanto affascinante, la quasi totalità
degli scienziati escluse questa ipotesi, data la completa assenza
di radioattività in tutta la zona devastata dall'esplosione.
Altre ipotesi originali, pubblicate anche su riviste scientifiche
specializzate, riguardavano l'impatto sulla Terra di un mini ­
buco nero o di un pezzo di antimateria.
Oggi le conoscenze riguardo al ruolo che gli impatti extraterrestri
hanno avuto nella storia del nostro pianeta sono di gran lunga
maggiori rispetto a qualche decennio fa. L'esplorazione della
Luna e di molti altri pianeti e satelliti naturali ha mostrato
che la collisione tra corpi interplanetari e la conseguente formazione
di grandi crateri, è un evento relativamente comune nel
Sistema Solare. Poco meno di vent'anni fa una nuova scoperta ha
indicato che sulla Terra i maggiori tra questi impatti hanno probabilmente
causato vere e proprie catastrofi climatiche ed ecologiche, come
quella che 65 milioni di anni fa provocò l'estinzione in
massa dei dinosauri e di circa i due terzi delle altre specie
viventi. L'indizio decisivo è poco evidente ma convincente
per gli scienziati: nel sottile strato di argilla che su tutta
la Terra segna il confine temporale fra l'epoca dei dinosauri
(il Cretaceo) e quella successiva (il Terziario) è presente
infatti una quantità anomala di iridio, elemento chimico
raro nella crosta terrestre ma relativamente abbondante nelle
meteoriti. All'inizio degli anni 90 la scoperta dell'enorme cratere
di Chicxulub (circa 150 km di diametro), sepolto sotto un chilometro
di sedimenti fra lo Yucatan e il Golfo del Messico e di età
pari proprio a 65 milioni di anni, ha fornito un argomento decisivo
a favore del rapporto i grandi impatti di corpi cosmici e le catastrofi
climatiche ed ecologiche nella storia della Terra. A quel periodo
risale la scomparsa dei dinosauri e di circa il 70% delle specie
biologiche allora viventi. Quanto sono frequenti gli eventi come
quelli di Tunguska? Le stime concordano sul fatto che in media
un impatto di questo tipo può verificarsi ogni 100-300
anni. Si tratta solo di una media: nulla osta che gli impatti
avvengano anche a intervalli più brevi o più lunghi.
Gli effetti dipendono naturalmente da dove si verifica la collisione:
se avvenisse sul 5% della superficie terrestre dove la densità
di popolazione è relativamente elevata, o anche in una
zona marina vicina alle coste (su cui arriverebbe un violento
maremoto, o tsunami) le vittime potrebbero essere numerose. Data
la debole luminosità dei corpi interplanetari di questo
tipo quando non sono molto vicini alla Terra, sarebbe molto improbabile
che il "proiettile" fosse scoperto in anticipo, in modo
da poter prevedere l'impatto ed evacuare la zona in pericolo.
La spedizione organizzata lo scorso mese di luglio da ricercatori
dell'Università di Bologna e dell'Osservatorio Astronomico
di Torino in collaborazione con alcuni colleghi russi ha effettuato
un'esplorazione sistematica nei dintorni del sito per cercare
di stabilire la natura del corpo la cui esplosione devastò
la taigà. Sono stati prelevati numerosi campioni di sedimenti
dal fondo del lago Ceko, lontano pochi chilometri dall'epicentro
dell'esplosione; sono state effettuate riprese fotografiche aeree
multispettrali e rilevamenti topografici della regione circostante
l'epicentro. Le difficoltà logistiche da superare sono
state molte: si è dovuto infatti organizzare un campo base
per oltre 30 persone in una regione paludosa della taigà,
a un centinaio di chilometri dal più vicino centro abitato
(Vanavara), raggiungibile solo con l'elicottero, e ad alcune centinaia
di chilometri dal primo centro dotato di collegamenti stradali
con il resto della Russia. Le preziose e numerose apparecchiature
necessarie per le ricerche sono state sistemate nel campo base,
da cui i ricercatori italiani, coadiuvati da alcuni colleghi russi,
si sono mossi per realizzare quanto programmato. Non si è
trattato della più numerosa delle spedizioni effettuate
in Tunguska, ma certamente di quella dotata delle apparecchiature
più moderne. E questo lascia sperare che, dopo quasi un
secolo e a seguito dell'analisi dei campioni prelevati, che richiederà
non meno di un anno, si possa dare un contributo decisivo alla
soluzione dell'enigma di Tunguska.
Mario Di Martino
Osservatorio Astronomico di Torino